Oltre le dicotomie

da Redazione | 28 Aprile 2022 | Voice |

Contributo a cura di Marta Bertolaso.

Il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, prima della pandemia legata al Covid-19, era rappresentato dalla sfida mediata dalla trasformazione digitale. Le 3 ‘A’ che la rappresentano – accelerazione, accessibilità, autonomia – costituivano le parole chiave attorno a cui le aziende, le comunità e le istituzioni riflettevano per stare al passo con i tempi e per adeguare i propri processi produttivi, educativi e democratici alle dinamiche emergenti. La domanda che trasversalmente mediava le discussioni era tipicamente quella sulla relazione uomo-macchina e più in concreto quale ruolo e posto sarebbe stato riservato all’intelligenza e al lavoro umano in uno scenario socio-produttivo altamente mediato dalle nuove tecnologie di intelligenza artificiale (IA).
D’altro canto, la pandemia legata alla diffusione del coronavirus ha imposto alla riflessione di tutti, sia a livello personale che collettivo, l’evidenza della contingenza della vita umana e di quanto essa sia dipendente dalle dinamiche globali e territoriali. Al di là degli scenari tecnologicamente avanzati su cui si stava incentrando la discussione sulle transizioni digitali, i lavori legati alla cura medico-sanitaria, all’educazione e alla comunicazione hanno di fatto mediato in questi ultimi mesi le relazioni e le dinamiche territoriali e istituzionali su tutti i livelli. Prova ne è il fatto che anche nelle aziende l’esperienza condivisa dai CEO è stata fondamentalmente quella di un’attività e attenzione ai propri dipendenti precisamente legata a questa tre dimensioni, se non nei contenuti, nelle intenzioni e nelle prassi: cura delle persone, informazione-comunicazione, educazione-formazione per far fronte ai cambiamenti in corso e per affrontarli ‘insieme’.
La dimensione comunitaria, nel bene e nel male, legata alle recenti vicende giustifica allora una nuova consapevolezza, un nuovo protagonismo. Se nello scenario più asettico di un mero discorso sulle transizioni digitali, il protagonista aveva l’obiettivo di arrivare ‘prima’, nello scenario attuale, il protagonista vuole arrivare ‘con’. È evidente cioè che non c’è futuro se non insieme e contando su un nuovo paradigma che rimetta insieme il pubblico e il privato, il locale e il globale il personale e il collettivo. Oltre le dicotomie dunque.
Metodologicamente questa transizione è ora mediata da un concetto che prima non era di moda ma che ora si impone all’evidenza come parte integrante della vita reale. È il concetto di complessità, la cui controparte operativa è quella di ‘(eco)sistema’. Il mondo delle organizzazioni ne è assolutamente consapevole, prova ne è il fatto che sempre più frequenti sono i linguaggi che nelle scienze sociali, politiche ed economiche che mutuano concetti e termini dalle scienze della vita più che da quelle ingegneristiche. Più che discutere di meccanismi, si discute infatti di network, più che di funzioni specifiche di implementazione di capacità e della loro dipendenza dal contesto.
Queste ultime categorie tipiche delle scienze della complessità e del vivente stanno aprendo sempre più la domanda sui fondamenti di uno sviluppo integrato e sostenibile.

La prospettiva rovesciata

La tensione che soffriamo è allora giustificata dalla doppia vertente descritta sopra. Da un lato, dobbiamo gestire le transizioni digitali in corso, in cui i dati e gli algoritmi hanno un ruolo predominante nella configurazione, nel nostro percepito e nell’immaginario comune, dei nuovi mondi possibili verso cui andare. Dall’altra dobbiamo dare risposte adeguate all’urgenza della domanda legata alla contingenza delle situazioni così dipendenti da possibili catastrofi che costituiscono una minaccia al nostro mondo biologico e naturale.
Lo slancio verso il protagonismo (inteso come la realizzazione di qualcosa) che caratterizzava l’epoca industriale e i suoi paradigmi funzionalisti, lascia ora il posto a un nuovo sentimento e desiderio di essere protagonisti (etimologicamente, i primi combattenti). Quest’ultima accezione ha in sé la chiara consapevolezza che un primo combattente sa che dalla sua azione dipende non solo la fattibilità di determinati progetti ma anche la salvezza o il benessere di quanti vi partecipano. Da queste azioni congiunte nasceranno la speranza e la possibilità di una reale configurazione di nuovi mondi e scenari. Ecco allora che torna ad imporsi l’urgenza di riflettere non solo su ‘dove andiamo’ ma anche ‘come ci vogliamo andare’ e ‘con chi’.
Se è vero che tutte le rivoluzioni hanno sempre cambiato la società, l’uomo e il suo modo di comprendere il mondo e sé stesso, i rapporti istituzionali e sociali nonché politici ed economici, la trasformazione in corso ha la peculiarità di riportare anche la riflessione sull’uomo stesso e sull’agire specifico in un ambiente fortemente trasformato dalle nuove tecnologie.
Inoltre, se prima dicevamo che le transizioni digitali hanno interrogato l’uomo nel suo rapporto con le macchine, le pandemie e le crisi globali e ambientali stanno ora interrogando la scienza, la sua affidabilità e il suo rapporto con la realtà.
Questi temi ci occuperanno per i prossimi decenni, ma quello che già possiamo fare è interrogarci su quale azione, su quale ‘fare positivo’ ci possiamo cimentare per essere leader. Il mio suggerimento è quello di prendere sul serio le ragioni delle tensioni sopra menzionate e che stanno costituendo anche la base di discordie su molti livelli e andare oltre, cambiando prospettiva. L’idea è che – come in altri momenti della storia – la ‘way out’ da una situazione che da non pochi viene percepita di stallo non si farà cercando risposte e soluzioni all’interno dei paradigmi deterministi e funzionalisti che caratterizzavano la modernità. Serve riconsiderare l’importanza delle relazioni e delle integrazioni ricomponendo i dualismi contemporanei per lasciar spazio a un’epoca della ‘cura dello sviluppo integrato’. C’è bisogno di nuovi concetti che medino l’azione e di una narrazione che ne veicoli i valori. Tutto ciò è già in corso e sta lasciando spazio a un nuovo ‘umanesimo tecnologico’, a un rinascimento della scienza e della democrazia oltre i paradigmi che fino ad ora le hanno rappresentate. Ma che questo si realizzi, dipenderà dai ‘primi combattenti’ dalla consapevolezza cioè che riusciremo a maturare noi su quanto sta accadendo e su quel cambio di prospettiva prima di tutto interiore, intenzionale, che questo comporta. Da lì deriveranno la forza della nuova leadership e l’incisività dell’azione. Diversamente, continueremo soltanto a reiterare preoccupazioni e minacce già vissute fomentate dalle innovazioni tecnologiche e dalle urgenze ambientali (qualsiasi connotazione questo “ambientale” possa avere, dall’ambiente domestico, alle organizzazioni, alle dinamiche socio-democratiche e al clima). C’è bisogno cioè di ricomporre nella pratica, prima di tutto, conoscenza e azione attraverso un paradigma unitario e integrato per perseguire benefici sostenibili.

Il new normal o l’attenzione per il particolare-concreto

Che forma prenderà questo ‘fare positivo’? In modo sintetico direi che le azioni saranno sempre più mediate dall’attenzione e presa in carico di quelli che chiameremo ‘particolari concreti’. L’attenzione per la famiglia e le amicizie, lo spazio per gli interessi personali, la sensibilità per cogliere il nuovo e le novità che le periferie e le minoranze portano con sé nelle organizzazioni o nelle territorialità. Ne consegue la consapevolezza che le dinamiche emergenti su centri periferici possono essere dirimenti rispetto all’evoluzione e all’adattamento del sistema nel suo complesso. Tutto questo che da decenni ormai appartiene alle scienze sistemiche e della complessità sta ora forzando – anche attraverso i big data e le nuove tecnologie di IA – una rivisitazione di ciò che considereremo scientifico e attendibile, affidabile in termini di sostenibilità e sviluppo (non progresso!) dei sistemi organizzativi e sociali o politici.
Il punto di vista che fonderà questo fare positivo sarà una nuova consapevolezza che lavoro, educazione e impresa non sono tre modi o tappe che configurano la vita e la biografia dell’uomo. Lavoro, educazione e impresa costituiscono invece le tre dimensioni con cui l’uomo si muove e vive nel mondo. Al di là di paradigmi antropocentrici o tecno-centrici, nell’epoca dell’infosfera (società che basa il suo sapere nel riferimento ai dati digitali), l’uomo si comprenderà sempre più come essere in relazione. L’educazione gli ricorderà le sue origini e ne rafforzerà l’identità genealogica, il lavoro gli permetterà di contribuire personalmente al bene proprio e altrui nella costruzione di mondi ‘in cui valga la pena vivere’, l’imprenditorialità gli permetterà di lasciare traccia, un’eredità, di fare cultura e costruire la storia. Queste tre dimensioni, che nelle scienze della vita e dello sviluppo organico hanno già da tempo uno statuto e leggi (anche matematiche) proprie, sono a mio parere un riferimento importante negli scenari attuali.
La forma più propria quindi della leadership e del fare positivo, non sarà più quella della performance funzionale ma quella della capacità di abitare. Come Heiddeger diceva, a metà del secolo scorso, non saremo capaci di costruire se non sappiamo abitare. Alla luce dei paradigmi sistemici e di sviluppo integrato-sostenibile, possiamo auspicare che questo abitare scopra sempre più il potere generativo insito nella cura del particolare-concreto. Una sussidiarietà quindi orizzontale e non più verticale che ci porterà a ripensare le istituzioni e le organizzazioni di conseguenza.

Leadership

Per finire e seguendo il pensiero di autori come Spaemann, Heiddeger e Sheler sull’importanza dell’intenzionalità e quindi della coscienza personale per far fronte alle sfide contemporanee – diremo ora del vivere da protagonisti – è necessario formare alla libertà, all’esercizio della libertà, all’azione con- sapevole e concreta capace di riconfigurare lo spazio e il tempo, i luoghi cioè specifici del vivere umano. Al contrario di sistemi scolastici e persino universitari che hanno concepito l’azione e il pensiero maturo come una liberazione dai vincoli, gli scenari attuali ci chiedo di scoprire quella dimensione dell’uomo che è capace di riportare ad unità, di dare una risposta di senso a una pluralità di elementi, di fatti, di dati. La macchina vede l’insieme come la somma dei singoli elementi, l’uomo va oltre tale composizione identificando significati e valori che muovono all’azione come lo sono stati gli orizzonti e le mappe che da sempre hanno guidato l’audacia e la leadership degli esploratori, dei navigatori, dei veri innovatori.
La scuola dovrà reinventarsi, le aziende lo stanno già facendo, c’è da auspicare che le istituzioni maturino in fretta queste consapevolezze per continuare ad essere elemento di unità e di sviluppo integrato dei paesi e per le diverse culture. L’esperienza sempre più mediata dalle tecnologie si amplierà quindi e aprirà a una comprensione molto più ricca di quella che chiamiamo coscienza e interiorità umana, dell’etica quindi. Al di là della molteplicità dei dati digitali dovremo formare le nuove generazioni al dato di realtà (al di là delle possibilità tecnologiche) e alle possibilità del limite, inteso come orizzonte che ci permette di cambiare i punti di vista e di dare nomi nuovi alle cose conoscendole o realizzandole, che è il modo più umano di stare al mondo attraverso il lavoro che proprio in questo consiste: nel dare un nome nuovo alle cose.
Uscire quindi dal vecchio paradigma del controllo verso un paradigma di cura (paradigma che è operativo, cognitivo e relazionale allo stesso tempo), cambierà prima di tutto i comportamenti e sposterà la domanda dalle ‘guidelines’ alla domanda di senso, processo già evidente nell’enfasi aziendali sul ‘purpose’. Il timone? Non più il progresso indefinito (utopia che ha già dimostrato i suoi buchi neri) ma la domanda sempre aperta e non banale, e pertanto coraggiosa, sulla felicità umana.
Le relazioni autentiche e umanizzanti che ne derivano rifondano anche la domanda etica: con la sua controparte dell’humanistic management, la solidarietà non è tattica, né strategia ma principio organizzatore di azione all’interno del nuovo paradigma e consente di focalizzarsi sui processi di diversificazione e decorrelazione (della produzione, delle organizzazioni, delle strategie, ecc. ) senza perdersi e contribuendo in modo nuovo ‘eco-sistemico’ alla comprensione del ruoli, alla riduzione dei costi e alla gestione dei rischi.

Marta Bertolaso: Professore di Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie per l’Uomo e l’Ambiente e per l’Istituto di Filosofia dell’Agire Scientifico e Tecnologico dell’Università Campus Bio-Medico di Roma.

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