Non è un Paese per donne (CEO)

da Redazione | 24 Giugno 2022 | Direction |

Probabilmente la maggior parte di voi ricorderà Penelope per la paziente attesa del (non troppo) fedele Ulisse, che si prese dieci anni buoni per ritornare a Itaca dalla guerra di Troia.

Non tutte e non tutti sanno invece che l’Odissea è anche uno dei primi esempi di letteratura occidentale in cui un uomo zittisce una donna, quando Telemaco ricorda alla madre che «la parola spetta agli uomini», di fronte alla di lei richiesta che l’aedo Femio cantasse qualcosa di meno triste.

La reazione di Penelope all’arroganza del figlio è quella di chinare il capo e ritirarsi, un episodio archetipico potremmo dire, che ha finito per dettare un modello di comportamento.

Certo, da allora è passato sicuramente molto tempo, ma i progressi fatti sul terreno del potere femminile lasciano ancora molto a desiderare. Se con un arditissimo balzo temporale ci trasferiamo ai giorni nostri, le moderne penelopi sono ancora troppe.

Quante sono, per esempio, le donne in Italia a capo di un’azienda o comunque parte di un consiglio di amministrazione? Poche, troppo poche se consideriamo che secondo il report 2021 di  Ewob, l’associazione European Women on Boards, solo il 7% delle aziende italiane è guidato da una donna CEO, e si tratta spesso di aziende piccole o medio piccole. A livello europeo le cose non vanno molto meglio se, come afferma il Consiglio dell’Unione, “nell’ottobre 2021 le donne rappresentavano soltanto il 30,6% dei membri dei consigli di amministrazione e appena l’8,5% dei presidenti dei consigli di amministrazione”.

In Italia la legge Golfo-Mosca, varata 10 anni fa, con grande anticipo sul resto d’Europa, ha fissato al 40% l’obbligo di rappresentanza femminile nei Cda. Senza dubbio la legge ha sortito i suoi effetti, se è vero che la percentuale femminile dei CdA è effettivamente passata nel giro di 10 anni dal 7 al 40%; resta il fatto, però, che rimane molto basso il numero dei CEO donna. Senza alcun dubbio gli ultimi due anni di pandemia non hanno giovato alla causa, anzi. A livello globale sono state 54 milioni le donne rimaste senza lavoro, mentre in Italia, nel solo 2020, ben 312.000 donne hanno perso la propria occupazione, esattamente il doppio rispetto agli uomini. Non solo, ma il divario che si è in questo modo creato, non è mai stato colmato, complice il fatto che le donne occupavano spesso posizioni più precarie. Nel 2019, infatti,il 17% delle donne lavorava a tempo determinato, mentre quelle in part time erano  un terzo del totale delle occupate, contro l’8,7% fra gli uomini, secondo il rapporto pubblicato circa un anno fa da Istat in collaborazione con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Inps, Inail e Anpal dal titolo Il mercato del lavoro 2020.

Questo è accaduto nonostante, anche a livello Europeo, le donne fossero tra le categorie di lavoratori più esposte alla pandemia. Secondo i dati diffusi dal Parlamento Europeo, dei 49 milioni di persone impiegate nel settore sanitario, uno dei più esposti al virus, ben il 76% di esse sono donne. Inoltre, una grande percentuale di donne è stata impiegata nei servizi essenziali: se pensiamo solo alle addette alle casse dei supermercati, nell’UE le donne rappresentano l’82% e per quanto riguarda invece i lavori domestici e assistenziali la percentuale sale al 95%.

C’è un punto che val la pena sottolineare a chiusura di questo discorso: il processo di digitalizzazione che la maggior parte delle aziende oggi sta vivendo è un altro elemento che rischia di farci fare passi  indietro sulla parità di genere: appena il 18 per cento delle studentesse universitarie, infatti, frequenta corsi in discipline Stem. Un primo passo per colmare il gap di genere nel mondo del lavoro, potrebbe partire proprio dalla formazione. Promuovere tra il pubblico femminile le facoltà STEM, valorizzare i talenti femminili nelle materie scientifiche fin dalla scuola elementare potrebbe essere un primo e fondamentale passo per costruire l’equità di genere nel mondo del lavoro.

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