Dagli head quarter agli hub quarter: verso il relational workplace

da Redazione | 12 Maggio 2022 | Voice |

Per la redazione di questo capitolo si ringraziano: Daniele Di Fausto – Founder Venture Thinking, CEO eFM, Marta Bertolaso – Founder Venture Thinking, Professoressa di Filosofia della Scienza e Sviluppo Umano al Campus Biomedico di Roma e Emiliano Boschetto – Senior Manager eFM, Executive PhD Student al Campus Biomedico di Roma

La Pandemia è stata il più grande esperimento sociale della storia contemporanea. Una remotizzazione collettiva e simultanea dei processi di funzionamento delle organizzazioni che non ha cambiato gli ingredienti di base, ma ha modificato strutturalmente le relazioni e i processi che li tenevano insieme, accelerando drasticamente e intrecciando strutturalmente fenomeni già presenti.
Un’immagine può aiutare a trasmettere immediatamente questo stato di cose. Quando è scoppiata la crisi sanitaria causata da CoVid 19, gli smart worker in Italia erano circa 500.000, e aumentavano ad un ritmo di quasi 19.000 all’anno (Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano). A questo ritmo avremmo raggiunto i 7,5 milioni di smart worker che abbiamo visto effettivamente concretizzarsi nel primo trimestre del 2020 solo nel 2388, cioè tra 368 anni (De Masi 2020). Si potrebbe dire che siamo progrediti di quattro secoli in quattro mesi!
Quanto detto è chiaramente un’iperbole, ma rende bene l’idea del cambiamento radicale che abbiamo subito in un lasso di tempo così breve. Certo, non è la prima volta che viviamo una crisi planetaria nella storia recente (seconda guerra mondiale, crisi petrolifera, crisi finanziaria, ecc.), ma è la prima volta che – grazie alla pervasività della digitalizzazione – la condividiamo globalmente e simultaneamente.
Una delle caratteristiche più evidenti di questa ‘ordinaria complessità’ è la destrutturazione degli ambienti di lavoro tradizionali, basati sull’unità e la rigidità dei perimetri di spazio-tempo-azione, che sembravano servire perfettamente la causa delle classiche organizzazioni tayloriste: luoghi di produzione definiti e controllati (gli Head Quarters); scansione rigida del tempo di vita del lavoratore nelle 8 ore di ciclo lavoro-riposo-svago rappresentata iconicamente dalla timbratura del ‘cartellino’; organizzazioni gerarchiche rigide che distribuiscono compiti pianificati al fine di minimizzare l’uso delle risorse e massimizzare il profitto. La Pandemia ha rotto improvvisamente questi confini: ha separato definitivamente lo spazio dalla sua funzione; ha frammentato e sovrapposto il tempo in cui svolgere il lavoro (o in cui dedicarsi alla vita privata); ha indebolito la funzione diretta di controllo, autonomizzando forzatamente i lavoratori.
Una transizione epocale completata nel giro di un paio di settimane. Gli effetti sono ancora in fase di studio, anche perché non ne siamo ancora usciti definitivamente, ma alcuni dati interessanti (ad esempio il recentissimo Microsoft Work Trend Index Report 2021) cominciano comunque ad emergere ed evidenziano due tendenze, in qualche modo contrapposte: da un lato i lavoratori sono in grado di gestire più efficacemente i propri impegni lavorativi e di integrarli più facilmente con la propria vita privata; dall’altro è diffusa la percezione della perdita di elementi sociali, una sensazione di isolamento e distacco dal proprio ambiente organizzativo, una mancanza di risonanza con l’azienda, con il conseguente peggioramento non solo delle condizioni psicologiche (rilevato un maggior rischio di burnout) ma anche di creatività e innovazione.
Questo non deve sorprendere: il lavoro è stato traslocato digitalmente tutto sommato in pochi giorni. Così, le connessioni funzionali dell’organizzazione, i suoi ‘legami forti’ – tutti gli elementi pianificati e pianificabili dell’esperienza lavorativa – sono stati integralmente ricostituiti, e spesso in modo più efficiente, ma senza riuscire a consolidare – e perché no, “aumentare” (in sen so informatico) – la sua infrastruttura relazionale, i suoi ‘legami deboli’ – tutti gli aspetti non pianificabili del complesso collante che collega i nodi o punti dell’organizzazione, siano essi persone, gruppi o unità organizzative. La tecnologia ha fatto il suo lavoro trasferendo linearmente le funzioni organizzative ma ha lasciato a terra il loro contesto relazionale.
Ora la tecnologia può contribuire ad effettuare un’ulteriore traduzione digitale andando a mappare anche le proprietà relazionali della struttura organizzativa orientando il lavoratore a muoversi in un ambiente di lavoro distribuito, liquido e condiviso, mettendolo in grado di riconnettersi all’identità dell’azienda senza perdere l’autonomia acquisita.

Il ruolo della tecnologia. Il caso MYSPOT

La tecnologia deve agire in due direzioni. Da un lato, offrire un’adeguata infrastruttura digitale che renda i luoghi del lavoro responsivi e “sensibili”, capaci cioè di ascoltare chi li abita e adattarsi in tempo reale alle sue esigenze. Non si tratta solo di spazi sensorizzati dall’“IOT (Internet of things)” per ottimizzare il comfort ma anche – questa la vera novità – dall’ “IOHT (Internet of human things)”. Una nuova sensoristica basata su affective computing in grado di raccogliere i dati “relazionali” dei diversi ambienti fisici e digitali – livello di attenzione, sentiment analisys, tone of voice, etc. – suggerendo iterativamente, attraverso feedback e feedforward basati su AI, come migliorare l’efficacia del lavoro in una nuova esperienza ibrida e unificata.
Soprattutto, la tecnologia deve connettere in un’unica esperienza la rete di spazi diffusi trasformando gli Head Quarter in Hub Quarter. Stava assumendo sempre più rilevanza prima del CoVid 19 il concetto di ufficio diffuso. Ora che ci stiamo lasciando alle spalle la Pandemia, questa modalità di organizzazione di luoghi e modalità di lavoro esploderà. Dovremo presto essere in grado di attivare una rete capillare di luoghi ibridi abilitati da un’infra struttura tecnologica innovativa, tenuta insieme da un hub centrale, uno spazio costantemente connesso ad un’offerta di luoghi, esperienze e modalità di lavoro e socialità diffuse (City as workplace). L’infrastruttura a servizio di questa rete deve essere allora una tecnologia che non mappa solo le caratteristiche fisiche dello spazio ma anche quelle relazionali. Un esempio interessante è costituito dalla piattaforma MYSPOT, individuato come Cool Vendor Gartner per l’Employee Engagement and Enablement in the Digital Workplace. MYSPOT è una bussola virtuale capace di individuare il portato relazionale (conoscenze, competenze, interessi, contenuti, emozioni) che caratterizza ogni luogo – il suo genius loci – e quello che connota le persone che li abitano (il loro numen); è la chiave digitale in grado di aprire in sicurezza le porte di tutti i luoghi della rete orientando manager ed employee nell’individuazione dei migliori spazi, modalità, conoscenze e competenze attingibili in maniera diffusa, un sistema di accesso dinamico a un knowledge & people inventory.

Le metriche dello spazio relazionale

Le rigide mura perimetrali che caratterizzavano gli uffici tradizionali (unite alla rigidità dei perimetri temporali e organizzativi) limitavano molto la libertà e autonomia dei lavoratori, ma offrivano riferimenti certi. Bisogna ora proporre riferimenti altrettanto certi ma dinamici in modo che l’employee possa ritrovare identità nella relazione con la propria organizzazione ma senza perdere la libertà (e la potenzialità di crescita) acquisita. Il design di questi nuovi confini abilitati dalla tecnologia deve mappare tre metriche relazionali.
La resonance. Si tratta della dimensione che lavora sul DNA di un’organizzaizone, ciò che i suoi componenti hanno originariamente in comune (non in senso temporale, ma da una prospettiva identitaria). L’appartenenza a un’organizzazione in un ambiente complesso ha perso quei riferimenti rigidi, spesso vincolanti, ma comunque definiti, che hanno caratterizzato l’esperienza lavorati va per centinaia di anni e che la Pandemia ha messo radicalmente in discussione. I luoghi, i tempi, le modalità e persino i termini contrattuali che legano i dipendenti a un ambiente di lavoro diventano spesso dialogici, transazionali. È essenziale che la ragion d’essere di un’organizzazione (si pensi allo scopo di un’azienda, ai suoi valori, ma anche ai suoi principi guida), non sia solo esplicitamente dichiarata dall’azienda ma sia continuamente praticata dagli individui. Deve risuonare costantemente all’interno del sistema. È una condizione che può essere ottenuta introducendo meccanismi di feedback peer-to-peer (che non devono necessariamente essere strumenti di controllo). Questi servono chiaramente non solo a mantenere un flusso continuo di informazioni, e quindi a dare ad ogni elemento la capacità di reinterpretare il proprio ruolo ma anche a consolidare dinamicamente e a praticare continuamente l’identità dell’organizzazione.
L’entanglement. Si tratta della dimensione funzionale, la correlazione stretta tra i componenti del network. Migliorare questo aspetto significa aumentare lo scambio di informazioni e quindi la capacità di adattamento e reattività ai cambiamenti dell’organizzazione. Rispetto a questa dimensione, il management non può certo determinare o pianificare i sofisticati collegamenti che caratterizzano le reti complesse, ma deve creare l’infrastruttura generale delle connessioni di rete che facilita la comunicazione. Ad esempio, è possibile favorire l’interazione attraverso strategie come spazi di lavoro ad architettura aperta, gruppi di lavoro digitali, rituali ibridi che facilitano e strutturano il coordinamento e lo scambio fra ambiente fisico e digitale.
Knowledge. La dimensione ‘quantitativa’ delle dinamiche interattive all’interno del sistema, intercettate dall’entanglement, è fondamentale ma non sufficiente. È necessario mappare in qualche modo anche la qualità che queste connessioni veicolano al fine di identificare ciò che crea pressione per ‘agire la relazione’.
Un buon indicatore può essere il livello di eterogeneità/affinità determinato dalle differenze/similitudini tra gli agenti in cose come il knowledge, principalmente, ma anche le competenze, le preferenze (genius loci per i luoghi / numen per le persone). Il processo di management deve favorire la libera dinamica tra questi diversi gradienti di conoscenza, per esempio attivando perturbazioni che hanno il potenziale di favorire l’apprendimento e la creatività, cose come nuove idee, informazioni, nuove persone, eventi, knowledge repository aperti e la possibilità di accedere a fonti di conoscenza non codificate. Questo porta l’organizzazione ad aumentare l’intelligenza collettiva e ad acquisire anche la capacità di dialogare con altre organizzazioni, di costituire ecosistemi, di relazionarsi con l’ambiente, caratteristica fondamentale in un contesto dove i confini tra sistemi – come abbiamo visto – non sono rigidi ma fluidi e transazionali.
Mappando queste tre metriche è possibile definire il livello di Relational Engagement di persone e organizzazioni, ovvero l’attitudine ad essere connessi con il contesto organizzativo ed ambientale. È una caratteristica che determina dinamicamente la coerenza di un sistema anche se non ha più confini rigidi.

Hub Quarter Ecosystem

Tra i fenomeni più interessanti di questo periodo ci sono i primi esperimenti di space sharing, cioè l’apertura degli spazi della propria azienda a gruppi diversi dai dipendenti. Un esempio è rappresentato dall’Hub Quarter Ecosystem Iniziative lanciata recentemente da alcune grandi corporate italiane. L’obiettivo è quello di indirizzare la nuova grande disponibilità di spazi e la libertà di scegliere tempi e modi del lavoro verso una modalità di lavoro “aumentato”, di creare dinamiche ecosistemiche generative guidate dall’identificazione del particolare “potenziale relazionale” (conoscenze, competenze, interessi, comunità, ecc.) disponibile nei diversi luoghi, anche grazie ad infrastrutture tecnologiche che orientano le persone nell’ambito delle metriche sopra descritte. Come abbiamo visto, l’apertura, la capacità di dialogo inter-organizzativo, l’attitudine a costruire relazioni ecosistemiche, è proprio uno dei tratti più importanti per guidare le persone ad abitare efficacemente i nuovi relational workplaces, gli ambienti di lavoro ‘post-topici’ che la Pandemia ci lascerà.


L’Hub Quarter Ecosystem Iniziative propone alle aziende di fare dei propri luoghi tanti hub di un’infrastruttura strategica per cambiare in senso sostenibile il modo di vivere il lavoro ed abitare le nostre città. L’obiettivo di questa alleanza è quello di ottenere subito un miglioramento della creatività, del senso di community, degli scambi, senza dimenticare l’impatto in termini di CO2 dovuto alla diminuzione degli spostamenti massivi e di una gestione più sostenibile degli edifici, utilizzati solo quando sono effettivamente necessari e differenziali. Una modalità concreta perché il ‘new normal’ non abbia nulla di normale, ma raccolga anzi tutte le potenzialità generative di questa particolare fase storica che stiamo attraversando nel ripensare modi, tempi e soprattutto luoghi del lavoro.

Marta Bertolaso

Professore di Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie per l’Uomo e l’Ambiente e per l’Istituto di Filosofia dell’Agire Scientifico e Tecnologico dell’Università Campus Bio-Medico di Roma.

condividi l’articolo